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Anno XIV num.4
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AMBIENTE ED ECONOMIA: ALCUNI LIMITI DEL PIL

di Roberto Lofaro

 

«Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo [ndr: PIL].

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani. (Robert Kennedy)».

Tre mesi prima della sua morte, nel mezzo di una campagna elettorale che lo avrebbe probabilmente consacrato agli onori della Casa Bianca, Robert Kennedy pronunciava questo discorso presso l’università del Kansas.

Era il 18 marzo del 1968. Si trattò di una delle prime, ufficiali prese di posizione da parte di un importante personaggio pubblico di un’importante nazione contro il criterio adottato dalle istituzioni americane per la misurazione del benessere della federazione.

Non si trattò di una mera disquisizione dottrinale sugli indicatori macroeconomici ed il loro utilizzo, bensì di una severa critica sul concetto stesso di “benessere” adottato dagli Stati Uniti. E’ altrettanto chiaro che la critica poteva riguardare - e riguarderebbe tutt’oggi – la totalità degli altri della Terra che osservano il medesimo standard di misurazione.

Ma cos’è il PIL?

L’Italia aderisce al Sistema europeo dei conti (c.d. “SEC95”), e, di conseguenza, la definizione che ne da il nostro istituto di statistica (ISTAT) discende pedissequamente dal predetto sistema. Questo definisce il “Prodotto interno lordo ai prezzi di mercato” come «il risultato finale dell'attività di produzione delle unità produttrici residenti. Corrisponde alla produzione totale di beni e servizi dell’economia, diminuita dei consumi intermedi ed aumentata dell’Iva gravante e delle imposte indirette sulle importazioni. È altresì pari alla somma dei valori aggiunti ai prezzi di mercato delle varie branche di attività economica, aumentata dell’Iva e delle imposte indirette sulle importazioni, al netto dei servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati (Sifim)». In altre e più semplici parole: è la somma dei valori di mercato di tutto ciò che è stato prodotto in Italia nel periodo di riferimento (normalmente, l’anno). Senza scendere troppo nell’analisi della definizione dettata dalla scienza della contabilità nazionale, assai meno banale di quel che può sembrare, quel che vogliamo qui porre in evidenza è come questo indicatore sia in effetti poco utile ai fini della misurazione del livello di benessere di una nazione.

Ci chiediamo: può il benessere misurarsi con la produzione?

A primo acchito, la risposta a questa domanda potrebbe apparire abbastanza ovvia. Basterebbe far mente locale ad ogni volta che ci siamo sentiti ripetere, nei periodi di crisi economica come di “normalità”, che «produzione significa lavoro e quest’ultimo dà da vivere», o frasi analoghe e simili, per esser tentati a rispondere con un netto “sì” - tutto sommato - abbastanza convinto. Ma ci siamo mai chiesti perché produciamo? E, prima ancora, perché lavoriamo?

L’ilarità di famosi pensatori e personaggi della storia tesi a colorare le lettere di un termine (lavoro) cui attribuiamo spesso significato di fatica e di sacrificio, ha coniato sarcastici aforismi, quale, per esempio, quello secondo cui «il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare» (Oscar Wilde). L’osservazione di taluni modelli di relazione industriale come quello giapponese potrebbero tendere, poi, a far pensare che la vita stessa si debba identificare, in qualche maniera, con il lavoro. Seppur si possa scorgere un frammento di verità in ciascuna di queste considerazioni, non vi dovrebbe essere dubbio sul fatto che si lavora per vivere e non il contrario; si potrebbe anche aggiungere che la dinamica (volontaria) dell’uomo relativa alla propria situazione lavorativa si giustificherebbe verosimilmente con l’obiettivo del perseguimento di una vita migliore.

L’apparente banalità delle predette affermazioni nasconde, in realtà, il punto di partenza di – almeno - due delicate questioni correlate, attuali e importanti: il rapporto tra produzione e benessere, da una parte, e la misurazione di quest’ultimo, dall’altra.

Cos’è il “benessere”?

Per definire questo termine, si potrebbe rispolverarne un’antica accezione, che stabilirebbe un collegamento forte con il concetto di “salute”. Quest’ultimo, tuttavia, dovrebbe essere opportunamente inteso in un senso più ampio di quello - classico - che si riferisce soltanto all’aspetto fisico, che coinvolga tutti gli altri aspetti dell'essere (emotivo, mentale, sociale e spirituale). In tal senso, appaiono particolarmente utili definizioni come quella espressa nell’ambito della prima Conferenza Nazionale di Educazione Sanitaria (1966), secondo cui «la salute è una condizione di armonico equilibrio funzionale, fisico e psichico dell’individuo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale». Salute – in senso ampio - e benessere, quindi, sono in rapporto di proporzionalità diretta, la prima essendo determinante essenziale della seconda.

La definizione appena citata risulta particolarmente interessante anche per il fatto di esplicitare l’importanza dell’«ambiente naturale», quale condizione vitale, unitamente all’ambiente sociale, che interagisce con le sfere funzionale, fisica e psichica delle persone, contribuendo a determinarne, in ultima analisi, lo stato di salute. In breve: il benessere dipende anche dalla qualità dall’ambiente naturale.

Vediamo, adesso, quali risvolti vi siano in termini di benessere collettivo nell’interazione tra produzione ed ambiente.

Facciamo parlare alcuni esempi. Quando si costruisce una casa in violazione delle norme a tutela del paesaggio o si abbandonano rifiuti in località agresti, si compiono attività che generano domanda per beni e servizi economici (progettazione e costruzione edili, nel primo caso; rimozione e bonifica dell’area interessata, nel secondo), che determinano, come sappiamo, una crescita del PIL. Tali attività, tuttavia, intaccano il patrimonio naturale, determinando una modificazione del paesaggio e la limitazione della fruizione del medesimo da parte della collettività: il benessere collettivo diminuisce.

La discrasia tra l’aspetto economico e quello ambientale non si annulla neppure nei casi in cui pure non v’è alcun disattendimento delle prescrizioni legislative, nemmeno di quelle specificamente ambientali. Due esempi emblematici: l’utilizzo in concessione di aree demaniali per l’installazione di insediamenti turistici e l’esercizio dell’attività di cava. Nelle fattispecie, lo sfruttamento economico del bene ambientale, che genera reddito e che, quindi, accresce il PIL, causano una distrazione, nel primo caso, o un vero e proprio e definitivo depauperamento ambientale e deturpamento paesaggistico, nel secondo, che diminuiscono il valore dell’ambiente naturale talora in maniera notevole e non reversibile.

In tutti questi casi, se volessimo proporre un’identità metrologica per il fenomeno produttivo ed il benessere collettivo, il PIL, a stretto rigore, anziché crescere, dovrebbe rimanere esattamente invariato.

Schematicamente ed esemplificativamente, possiamo evidenziare quanto segue.

Il PIL:

·        contabilizza il valore di attività di ripristino di danni ambientali provocati dall’uomo, come, per esempio, quelli per: la bonifica di siti inquinati, l’eliminazione di cause di inquinamento, gli interventi di spegnimento degli incendi boschivi dolosi, la riforestazione delle aree incendiate, la costruzione e la gestione delle discariche

·        non contabilizza il valore di alcune attività in favore dell’ambiente, come, per esempio, le numerose svolte dalle associazioni non profit ovvero il recupero e il riutilizzo dei rifiuti effettuato in ambito domestico;

·        non contabilizza i servizi forniti dall’ambiente che non transitano attraverso il mercato, come, per esempio: il panorama su un ambiente intatto; l’incanto della vista di un’alba o di un tramonto; il relax di una passeggiata in un bosco; il beneficio di una “tintarella” sulla spiaggia assolata; il divertimento di una nuotata in mare; la rigenerante immersione in una cascata di montagna; il dissetante sorseggio dell’acqua di una sorgente naturale; il romanticismo di una notte stellata;

·        contabilizza il valore delle risorse ambientali usate o utilizzate nella produzione secondo criteri o modalità che intaccano lo stock di capitale naturale. Si tratta, in taluni casi, di conseguenze totalmente o parzialmente reversibili, come l’inquinamento luminoso, acustico e olfattivo, mediante interventi che, al pari dei precedenti, dovrebbero essere scomputati dal PIL; in molti altri casi gli effetti sono difficilmente reversibili o irreversibili: il depauperamento delle risorse ittiche a causa delle attività di pesca non regolare; il depauperamento delle risorse forestali a causa delle attività di disboscamento “selvaggio” e di incendio doloso; il deturpamento paesaggistico causato dalle predette attività nonché del fenomeno dell’abusivismo edilizio; lo sfruttamento del suolo e del sottosuolo per via delle attività estrattive e minerarie; l’inquinamento atmosferico e l’effetto serra; l’estinzione di specie animali e vegetali.

C’è da evidenziare, per completezza di ragionamento, che, per converso, la diminuzione del PIL non ha, in ottica etico economica e ambientale, necessariamente un significato negativo. Si pensi, per esempio, al minor uso dell’energia a seguito della diffusione di lampade ed elettrodomestici più efficienti o anche al minor acquisto di carburante dovuto al mutamento delle abitudini dei cittadini verso un maggior ricorso al mezzo pubblico o all’acquisto di automobili più ecologiche. In questi casi si assisterebbe, ceteris paribus, ad una diminuzione del PIL per un importo corrispondente all’energia e ai carburanti non consumati (ove questi siano prodotti interamente all’interno), a beneficio dell’ambiente e, quindi, della collettività.

Lungi comunque dal rappresentare, a parere di chi vi scrive, il benessere collettivo di una nazione, il PIL, rettificato mediante l’applicazione di tali variazioni in aumento e in diminuzione, costruirebbe un numero un po’ meno ipocrita e, sicuramente, più utile ai fini delle scelte e delle strategie di politica economica di un paese. (Dic. 2010)

Roberto Lofaro

 


 

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