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E’ emergenza ambientale?

I “peccati” di un’Italia a pezzi: resoconto di un autunno nero

di Domenico Margiotta

 

“E’ evidente che si è costruito la dove non si doveva costruire“. E’ quanto ha affermato il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in seguito al vero e proprio inferno d’acqua che ha colpito le regioni della Liguria, Toscana, Piemonte e Campania. “E’ stato uno tsunami. Una cosa mai vista a Genova”.

E’ quanto ha assicurato il sindaco di Genova, Marta Vincenzi. Su tutti i canali mediatici, nazionali e non, si viene sommersi da una serie incomprensibile di parole, di affermazioni e smentite, di immagini, video e testimonianze che presi ad uno ad uno e poi disposti in ordine logico danno l’immagine di un Paese impazzito. Quello che ci viene inscenato è un Paese in preda a non si sa quale macumba. Ma appena cessato questo rumore di sottofondo mediatico, fatto di sensazionalismo e demagogia, qualcosa si comincia a capire. Quello che resta ora sono i puri e semplici fatti sotto gli occhi di tutti: piccoli pezzi, tasselli di un puzzle che, ricomposti, danno l’immagine di un’Italia “peccaminosa”.

 

Il terremoto che ha colpito le popolazioni dell’Abruzzo, il caso dei rifiuti a Napoli, le alluvioni siciliane. Questi sono solo tre esempi di una serie interminabile di emergenze che hanno colpito negli ultimi anni il nostro Paese. E ora, il responso autunnale delle emergenze italiane parla di quattro regioni interessate da alluvioni. Diamo qualche numero per la sola città di Genova: 17 minuti per mettere in ginocchio una città intera, sei le vittime certificate, oltre 300 gli interventi effettuati dai vigili del fuoco per salvare cittadini travolti e trascinati dall’acqua, cosi come quelli per crolli, voragini, dissesti statici e allagamenti; danni per milioni di euro, ancora non quantificati; 65 milioni di euro stanziati dal Governo a supporto delle popolazioni e delle aree interessate dalle alluvioni; oltre 120 gli sfollati; 28, 1, 8, 40, 20, 50, gli anni delle vittime. Ma è giusto usare in queste circostanze il termine emergenza? La parola emergenza nel nostro vocabolario significa “caso che emerge”. Ma si tratta veramente di un caso? Oppure dietro c’è qualcosa di più?

 

Molti di noi pensano che questi avvenimenti sono lontani, non possono toccarci, in fondo è stato solo un caso che sia successo. Ma cose del genere nelle regioni d’Italia colpite, e soprattutto a Genova, sono già successe in passato, a partire dalla tragedia del 1970 che causò venticinque vittime. Se provate a rivedere le vecchie immagini noterete come sono identiche a quelle di oggi: strade deserte piene d’acqua e fango, alberi sradicati, auto cappottate. Questo particolare dimostra senza dubbio che tutto questo non era affatto imprevedibile, anzi il contrario. Inoltre, la modalità e quindi le ragioni dei disastri sono, più o meno, sempre quelle: molto spesso infatti si tratta di fiumi o torrenti che vengono deviati e soprattutto coperti e intubati. E sopra alla fogna in cui viene costretto il torrente si è costruito di tutto, dalle strade fino alle case. Quello che è successo lo sappiamo tutti, ingegneri idraulici e non: il torrente che scende con dislivelli fortissimi da una montagna che è quasi a ridosso del mare all’improvviso si ingrossa, il tunnel riduce la portata e diventa una bomba ad acqua compressa pronta ad esplodere. A questo punto parlare di caso è sbagliato, ciò che emerge da tutto questo non è il caso, ma qualcos’altro.

 

Di certo, tecnici che vi hanno lavorato e politici locali che hanno avvallato, per ignoranza o malafede, questo tipo di sviluppo non possono assolutamente essere esenti da colpe. Nemmeno quegli imprenditori e speculatori che su questo hanno lucrato. Ma ci siamo dentro tutti noi: noi tutti facciamo parte di questa cultura che va avanti dal dopoguerra. E, tornando all’esempio di Genova, non si tratta quindi di stabilire semplicemente se il Comune ha fatto bene o no a lasciare aperte le scuole, se il sindaco e l’amministrazione hanno fatto tutto il possibile per contenere il disastro. Le polemiche che in questi giorni infuriano sulla bocca di tutti sono solo fumo negli occhi. Il problema a monte è che finora tutti noi abbiamo condiviso lo stesso punto di vista: la qualità della nostra vita quotidiana odierna si basa su una filiera produttiva del tipo sviluppo-costruzioni-cemento-case-strade. Un Palazzo letteralmente costruito su di un fiume avrebbe dovuto essere demolito anni fa, invece è ancora in piedi e ci abita della gente. Esempi di questo genere in Italia se ne trovano a bizzeffe.

 

Ciò che si è capito, è che non bastano piani di emergenza in vista della prossima alluvione o quant’altro, che non bastano milioni stanziati per aiutare le popolazioni colpite e permettere a nostri connazionali di rialzarsi, di far tornare tutto come era prima perché questo è impossibile. E non sono solo i disastri paesaggistici o le vittime che certificano questo. Non si può. Perché questo modus operandi non ha fa altro che ricoprire i nostri peccati e dare l’impressione di lavare le coscienze. Ciò che serve è una specie di piano B per orientare diversamente lo sviluppo.

Non basta nemmeno smettere di costruire e non commettere più gli errori del passato.

Quello che ora serve è restaurare filologicamente il territorio, recuperando il passato per affrontare al meglio il futuro.

A Genova “restaurare” il territorio significherebbe abbattere le case costruite nei posti sbagliati, deviare le strade e restituire ai fiumi il proprio alveo naturale. Per fare questo, occorre cambiare davvero mentalità, accettare altre priorità: il turismo, come vera attenzione al territorio e come sua possibile risorsa, potrebbe far molto per ri-orientare la cultura del nostro paese. Un territorio fatto apposta per noi, sicuro e bello, vivibile nel tempo.

 

Domenico Margiotta

 


 

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