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Anno XIV num.4
Lug./Ago. 2015

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La percezione del rischio

di Sara Bonati

 

Indice:

1.        Definire il «rischio», p. 3

2.        La percezione del rischio nelle diverse culture: quadro storico, p. 3

3.        La percezione del rischio oggi, p. 4

4.        Alcuni dati sull’impegno ambientale, p. 5

5.        La preoccupazione dell’opinione pubblica, p. 7

6.        L’informazione e la comunicazione ambientale, p.  8

7.        Conclusioni, p. 10

 

Abstract

La presente ricerca si propone il compito di definire il concetto di «percezione dei rischi ambientali». Il lavoro parte da un primo inquadramento della parola «rischio» e delle diverse sfaccettature che racchiude. In seguito si ripercorre la storia culturale dell’uomo e il suo modo di «vedere» l’ambiente (e le crisi ambientali) attraverso alcuni esempi.

In un secondo momento si cerca di «attualizzare» la percezione del rischio, attraverso l’analisi di alcuni sondaggi sulla comunicazione e sulla classificazione dei rischi.

La ricerca cerca di capire come la questione ambientale si colloca nel dibattito pubblico e quanto realmente la popolazione e il mondo politico «percepiscono» il problema (ossia qual è il grado di importanza che l’ambiente occupa nella coscienza comune).

 
  1. Definire il «rischio»

Il rischio può essere definito come «la probabilità del verificarsi di un danno ambientale moltiplicata per la grandezza (magnitudo) del danno stesso», ossia un elemento o fattore considerato pericoloso può esistere senza dare necessariamente origine a situazioni dannose. Il rischio è dunque «la possibilità che da una condizione di pericolo o da un fattore di pressione scaturisca un danno».[1]

Il concetto di «rischio» si distingue in «rischio ambientale» e «rischio antropico». Per parlare di «rischio naturale» è necessario che sussistano tre fattori concomitanti: pericolosità, vulnerabilità ed esposizione. Il «rischio antropico o tecnologico» invece è direttamente collegato alle attività umane. Esso si distingue ulteriormente in «rischio diffuso» (legato ad attività inquinanti) e «rischio puntuale», identificabile con il rischio di incidente.

Un aspetto legato al rischio è la «vulnerabilità» di un sistema sociale nelle emergenze. La valutazione del livello di vulnerabilità è data da alcuni indicatori:[2]

  • La capacità di riconoscere il pericolo e di attivarne l’allarme;

  • Il livello di misure preventive intraprese per contenere le emergenze;

  • Il grado di preparazione e il livello di risposta organizzata – collettiva e individuale;

  • La possibilità di mitigazione, di contenimento e riduzione del danno;

  • Il rispetto degli obblighi derivanti dalle normative di riduzione, contenimento e gestione dell’emergenza e di ripristino della normalità;

  • La volontà politica e la capacità dei decisori di affrontare i differenti livelli di emergenza;

  • Le risorse economiche a disposizione dei sistemi di soccorso.

2.       La percezione del rischio nelle diverse culture: Inquadramento storico

Il rapporto tra rischio e mito è molto stretto. I miti rappresentano storie tradizionali il cui obiettivo è dare una spiegazione ai fenomeni naturali, attraverso la «revisione mitologica» dei fatti storici e l’attribuzione di responabilità a forze sovrannaturali. Presso le prime comunità insediative, gli hazards erano spiegati come attività divine. La mitologia, per alcune popolazioni, è un mezzo d’interpretazione della realtà, come ad esempio per gli aborigeni in Australia, i Melanesiani nel Sud Pacifico e gli indigeni delle Americhe e del Circolo Artico.

Con l’avvento della scrittura, parte della mitologia è stata incorporata nei testi epici e religiosi. Un esempio è dato dalle storie sul diluvio universale, tra cui ricordiamo quella descritta nella Bibbia. Il racconto biblico di Noè presenta diverse analogie con l’epica babilonese di Gilgamesh, nella quale la figura di profeta è rimpiazzata da un uomo di nome Utnapishtim, realmente esistito durante il regno del decimo re di Babilonia. Entrambi gli scritti parlano della costruzione di un’arca su cui furono caricate diverse specie animali.

La civiltà babilonese è risieduta nella Mesopotamia, tra i fiumi Tigri ed Eufrate, e per questo è stata frequentemente soggetta a cataclismi marittimi. I due racconti risalgono allo stesso periodo storico e narrano della stessa vicenda, così come testimoniato da altri scritti mediorientali. L’aspetto interessante è che lo stesso evento, in questo caso un cataclisma di origine marina, è stato interpretato e percepito in modi diffententi, in base alla necessità umana di dare una spiegazione accettabile a tutto ciò che accade.

Esempi di diluvi mitizzati si ritrovano anche in altre culture: un caso simile è rintracciabile nella leggenda zapoteca che narra di un eroe, Tezpi, e dell’imbarcazione su cui si rifugiò con la sua famiglia e alcuni animali per sfuggire all’ira divina.

Moltissime culture hanno lasciato testimonianza di catastrofi di responsabilità divina, molte delle quali storicamente accadute. Nella mitologia greca, ad esempio, a ogni divinità era attribuita una forza della natura: Zeus era il dio dei fulmini e Poseidone dei mari, a loro era fatta risalire la responsabilità dei disastri naturali. Omero nell’Odissea indica l’ira di Poseidone come causa dei continui maremoti a cui Odisseo è soggetto.

Altri miti sono invece legati a violazioni della natura umana, alla ciclicità della donna, e all’imprudenza degli uomini. L’intento di queste storie è avvisare i lettori dei rischi derivanti da determinati comportamenti. Esisteva già in passato, dunque, una forma di prevenzione e informazione sulle catastrofi, costruita su quelle che erano le credenze di allora.

Interessanti sono anche i termini utilizzati per descrivere gli eventi: l’isola di Santorini è stata definita la «spiaggia del sangue», in riferimento al colore dei gas e dei materiali espulsi dal vulcano poco prima dell’eruzione. Altri racconti parlano del ruolo punitivo che avrebbero le catastrofi «di origine divina», ad esempio la distruzione delle città Sodoma e Gomorra. L’angelo che scende nella tomba di Gesù al momento della resurezione è preceduto da un terremoto. I movimenti naturali diventano così segnali di avviso che indicano il verificarsi o l’accadere di eventi significativi per l’umanità.

Prima del diciannovesimo secolo gli studi sulla terra, non di metodo scientifico, sono dominati dalle teorie catastrofiste. I catastrofisti credono che gli eventi naturali sono il più delle volte riconducibili all’attività divina. È Lyell, uno dei padri della geologia odierna, a sostiuire la teoria catastrofista con l’idea che sono i fattori geologici e geomorfologici, e non gli dei, a causare i disastri (leggi della natura).

 

3.        La percezione del rischio oggi

Oggi il modo di percepire gli eventi è cambiato. Ad eccezione delle comunità indigine, la maggior parte della popolazione mondiale è a conoscenza che le cause dei disastri naturali sono da ricondurre a fattori geologici e morfologici. Tuttavia, molti studi[3] hanno dimostrato che, accanto a fattori esclusivamente naturali, nell’ultimo secolo si sono sommati anche fattori legati all’attività umana. La nascita di molteplici associazioni ambientiste e provvedimenti statali e internazionali per la difesa dell’ambiente testimoniano la consapevolezza oggi acquisita.

La percezione del rischio può essere definita con i termini utilizzati da Kates[4], ossia la combinazione tra alcuni fattori: 1 - come sono viste le componenti del cataclisma, 2 - qual è la natura del personale rapporto che ciascuno ha con le situazioni di crisi, e 3 - quali sono i fattori legati alla personalità individuale.

Ciascuna cultura, benché sussistano credenze e considerazioni comuni, tende a “percepire” le crisi naturali in modo diverso, e questo è dimostrato dalla differente priorità accordata da ciascuna nazione alla prevenzione e al finanziamento dei sistemi di soccorso. La diversa percezione delle priorità è da ricondurre, oltre a fattori economici e storici, anche e soprattutto ad elementi culturali. Un esempio è il «gene dell’ottimismo»[5] occidentale, che si contrappone al pessimismo orientale. Secondo studi scientifici, il Giappone dedica maggiore attenzione allo sviluppo di progetti di prevenzione e informazione rispetto agli Stai Uniti. I giapponesi si sarebbero dimostrati più lenti dei colleghi americani nella risposta ai segnali di allarme, e per questo il Governo ha deciso di investire in misura crescente in questo settore. Le ragioni di questo diverso comportamento sarebbero da ricondurre proprio alla diversa cultura: mentre gli americani tendono a lasciarsi influenzare dai mass media e a scatenare reazioni di panico con maggiore facilità, i giapponesi attendono il verificarsi dell’evento e non reagiscono prima di avere chiara la situazione, da qui la lentezza nel riconoscere l’allarme.

Oggi i rischi naturali non costituiscono una priorità per le popolazioni mondiali, molto più preoccupate da altre cause di pericolo, quali emergenze economiche e sociali. Tuttavia dagli anni settanta si è formata una coscienza ambientale che sta crescendo sempre di più. Numerosi studi hanno dimostrato i rischi a cui la Terra andrà in contro se si proseguirà nello sfruttamento e nei livelli di inquinamento che si rilevano oggi[6].

La comunità internazionale si è mobilitata attraverso l’organizzazione di una serie di conferenze propositive finalizzate a “tamponare“ la questione ambientale, rispondendo soprattutto alle richieste provenienti dall’opinione pubblica.[7]

 

4.        Alcuni dati sull’impegno ambientale

All’interno del bilancio dell’Unione Europea si è registrato, tra il 2006 e il 2007, un aumento (piuttosto rilevante) dell’investimento nel settore ambientale (+17,9%), rispetto al 2005/06 (+4,2%). Allo stesso modo si è verificato un calo nella percentuale assegnata a questo settore nella spesa complessiva (il bilancio Ue per l’ambiente ha previsto per il 2004 il 3%, 2005 2,6%, 2006 0,165%, 2007 0,158% del totale del budget). Per gli Stati Uniti è stato previsto, entro il 2012, un calo del 15,1% del finanziamento al settore dello sviluppo e delle risorse naturali.

Questo fenomeno è indicativo di come spesso le buone intenzioni presentate alle assemblee internazionali non hanno una corrispendenza assoluta nella realtà. Nel caso presentato, l’Unione Europea ha promosso un grande sforzo per l’ambiente in termini d’investimento, soprattutto in corrispondenza del lancio dei 10 goals delle Nu[8]. Tuttavia il settore ambientale non è cresciuto quanto a importanza, dal momento che in termini di budget continua ad avere un ruolo marginale.

Se da una parte i paesi mostrano di essere impegnati e preoccupati per la salute del pianeta, dall’altra sono sempre più assorbiti da preoccupazioni di altra natura. Un esempio in questo senso è dato dai Pvs: i paesi più colpiti da catastrofi sembrano i “meno” preoccupati da eventuali crisi ambientali, almeno stando ai dati sulla prevenzione del rischio e sulla partecipazione alle conferenze internazionali. Basti pensare al caso di Bhopal[9]. In molti Pvs sono previste norme di sicurezza notevolmente inferiori a quelle dei paesi industrializzati, mettendo maggiormente a rischio la sicurezza e la salute del proprio paese. Di questo è possibile rintracciare prove all’interno di molte conferenze internazionali nelle quali tende a svilupparsi una netta divisione tra Pvs e Pi in merito all’importanza da accordare alla tutela dell’ambiente. In realtà questo “disisteresse apparente” trova spiegazione nella dimensione di altri problemi più attuali, quali la povertà, la disoccupazione, il sottosviluppo.

La necessità di rispondere alle esigenze quotidiane (altrettanto incombenti) delle popolazioni locali, porta inevitabilmente a trascurarne altre, in particolar modo l’ambiente, visto come una preoccupazione non incombente e/o imminente. Mantenere misure di sicurezza inferiori facìlita l’investimento straniero e stimola il mondo del lavoro all’interno di economie, che protremmo definire ancora di sussistenza.

Un passo importante è stato però fatto nel 2008 con il “pacchetto europeo 20-20-20” seguito dalla climate change act in UK.

 

5.        La preoccupazione dell’opinione pubblica

Uno studio del Conai (consorzio nazionale imballaggi)[10] del 2007 riporta che, rispetto al 2005, l’aumento della pratica del riciclo in percentuale a quanto immesso al consumo è: acciaio (2,8), alluminio (2,2), carta (0,1), legno (4,5), plastica (2,0), vetro (1,5). Nel 2006 la produzione nazionale di beni che prevedevano questi materiali è stata di oltre 12 milioni di tonnellate. Il recupero complessivo è stato superiore agli 8 milioni di tonnellate (8.080.000), di cui il riciclo è stato pari a 6,8 milioni. Il recupero energetico è stato quasi di 1.330.000 di tonnelate, ossia il 10,4% del totale. I risultati complessivi di riciclo corrispondono al 55,5% e di recupero al 66%, dati superiori agli obiettivi stabiliti dal legislatore per il 2008. Significativa è la crescita del riciclo da raccolta differenziata urbana, che nel 2002 era il 28% del totale, e nel 2006 il 42%. L’incremento tra il 2002 e il 2006 é stato quindi del 14%. Dal 1998 ad oggi c’è stato un aumento del 126% delle quantità di rifiuti d’imballaggio recuperate e riciclate. Questo è un dato molto importante, che dimostra come la preoccupazione per l’ambiente è sentita in modo crescente dalla popolazione.

L’utilizzo dei sistemi di riciclaggio differenziato è indicativo della volontà comune di contribuire alla salvaguardia del pianeta. Tuttavia la percentuale del riciclo registrata nel 2006 dimostra che più della metà della popolazione italiana non si preoccupa ancora dei rifiuti che produce. In molteplici casi la differenziazione urbana nasce dall’attivazione politica più che dalla volontà pubblica. Molti comuni, infatti, hanno creato dei progetti di distribuzione dei sacchetti per la differenziazione e di raccolta «sotto casa» dei rifiuti, attività che tuttavia trovano spesso ostilità da parte della popolazione in quanto realtà imposta dall’alto.

Un fattore che spesso entra in gioco e si pone in contrapposizione all’attivismo ambientale è la sindrome Nimby (not in my backyard), che introduce il tema del localismo. La teoria in questione definisce quell’atteggiamento secondo il quale la soluzione a un problema rischioso è da attivare o cercare «al di fuori del proprio orto». La tutela del proprio interesse locale, dunque, sembra avere la prevalenza sulla soluzione dei problemi collettivi.

Una ricerca Ecodeco[11] sulla preoccupazione per l’ambiente e sulla fiducia nel futuro riporta il livello d’interesse della popolazione mondiale ai problemi ambientali: l’indice di preoccupazione rilevato mostra che il 43% del campione è seriamente preoccupato, il 49,1% è mediamente preoccupato, mentre solo il 7,9% è poco preoccupato. Per quanto riguarda l’indice di fiducia per il futuro dell’ambiente, invece, solo il 15,5% è seriamente preoccupato rispetto al 66% che lo è a livello medio, mentre il 18,5% è poco preoccupato.

La preoccupazione per l’ambiente sembra essere trasversale ai diversi sistemi sociali, ossia tra paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati. L’indagine Gallup[12] del 1993 indica tra i paesi più preoccupati Canada, Portogallo, Filippine e Nigeria. In realtà, approfondendo l’indagine, si scopre che esiste una certa variazione tra i valori medi e i valori alti: i paesi industrializzati tendono a concentrarsi su un livello di preoccupazione alto, mentre i paesi in via di sviluppo hanno un atteggiamento di livello medio.

Un’altra ricerca Ecodeco indica quali servizi, a giudizio dei cittadini, necessitano di maggiori attenzioni. La tutela ambientale ha ricevuto il 9,8% dei voti come prima scelta, il 24,8% come seconda scelta, e il 65,4% come terza scelta. Superiori d’importanza nella prima scelta sono stati gli investimenti nei settori dell’istruzione e della sanità. Questo dimostra che il problema ambientale è sentito, anche se non come prima scelta.

Per quanto riguarda il gradimento dei movimenti ambientalisti, si è rilevato che le donne mostrano maggior interesse (59,6%) rispetto agli uomini (45,9%), e che i ragazzi tra i 18 e i 29 anni sono più coinvolti (58,0%) degli adulti (30-44 a. 55,9%, 45-59 a. 51,7%, oltre 60 a. 44,5%). Con l’avanzare dell’età, l’interesse per l’associazionismo a difesa dell’ambiente sembra scemare, anche se la percentuale resta non lontana dal 50%.

Diversi studi sulla percezione del rischio hanno dimostrato che le valutazioni di rischiosità del cittadino medio si basano su quattro fattori: volontarietà, controllabilità, familiarità e temibilità. Incidenti con bassa probabilità di occorrenza ma alto grado di danno sono percepiti come più temibili rispetto a eventi probabilisticamente più frequenti ma che comportano meno pericoli.

 

6.        L’informazione e la comunicazione ambientale

La televisione è la fonte di informazione più ascoltata da tutte le categorie d’età.[13] Comprendere l’informazione ambientale e la percezione della medesima da parte della popolazione significa, in primo luogo, analizzare il meccanismo informativo suddividendolo in aspetti importanti per la sua comprensione, e in particolare ci riferiamo ai tre aggettivi che rendono un’informazione completa: chiarezza, compattezza e credibilità delle fonti. Una ricerca Ecodeco, tesa alla comprensione del sistema informativo in campo ambientale, riporta che a chi si occupa di difesa dell’ambiente a livello sociale (movimenti e associazioni, gruppi di volontariato) è attribuito un maggior grado di chiarezza, rispetto a televisione e giornali, che tendono a fornire informazioni frammentarie. Per quanto riguarda l’indice di competenza, gli scienziati e i tecnici sono collocati ai primi posti, seguiti dai movimenti e dalle associazioni ambientaliste. La protezione civile e le aziende del settore ottengono anch’esse un punteggio positivo, piazzandosi al di sopra dei mass media. Agli ultimi posti restano i sindacati e le forze politiche. Infine la graduatoria sulla credibilità ripropone, con qualche leggera variazione di percetuale, quella già stilata per la competenza.

In merito all’effettiva conoscenza che i cittadini hanno delle tematiche ambientali, il 40% della popolazione non ha alcuna conoscenza riguardo l’abbattimento dei fumi delle centrali termoelettriche e dei fumi degli insediamenti industriali, una scarsa conoscenza degli impianti di riscaldamento a metano, della depurazione delle acque, della raccolta e smaltimento dei rifiuti, e dell’inquinamento acustico e da traffico. Il campo su cui sembra esserci una maggiore informazione è la riduzione dell’inquinamento da traffico (22,7% degli intervistati «molto», mentre il 55,5% indicava «abbastanza»). L’indice d’informazione, pertanto, è risultato basso per il 28,7%, medio per il 60,4%, e alto solo per il 10,9%.

Dagli anni sessanta è stata prodotta una folta letteratura con tema la percezione del rischio. Durante gli ultimi vent’anni, in particolare, le informazioni raccolte sono state usate per sviluppare diverse forme di approccio alla comunicazione del rischio, definita come «an interactive process of exchange of information and opinion among individuals, groups and institutions» (National Research Council, 1997)[14].

La comunicazione del rischio è oggi parte del risk management. Di fatto la produzione letteraria in questo campo si è indirizzata negli ultimi anni verso la ricerca del collegamento tra percezione e risposta, al fine di attivare un sistema efficace di comunicazione nelle emergenze. Uno studio adeguato dell’argomento consente di procedere verso una “rieducazione” della popolazione locale, allo scopo di predisporla ad affrontare e concepire nel modo più proficuo le situazioni di crisi. La differenza riscontrata tra la percezione delle comunità e le predizioni degli esperti è fatta risalire al diverso approccio al problema che le due categorie hanno. La popolazione tende a rispondere alla comunicazione e all’informazione a cui è sottoposta secondo il proprio bagaglio di esperienza, conoscenza e “senso comune”.

Il cittadino medio, oggi, è solito accordare poca fiducia all’informazione a cui è sottoposto, soprattutto se politica. Allo stesso tempo i mezzi d’informazione sembrano enfatizzare le notizie sullo stato dell’ambiente, sviluppando una comunicazione sensazionalista e allarmista a discapito del contenuto, il che produce spesso disinteresse e perdita di credibilità o, nel caso contrario, panico e confusione.

 

Conclusioni

La percezione del rischio è da sempre un costrutto culturale, poco fondato su reali conoscenze strutturali della realtà.

La percezione è condizionata fortemente dalla cattiva informazione che i sistemi di comunicazione forniscono e da una scarsa competenza in campo ambientale. Il desiderio locale di attivismo, per sopperire alle esigenze ambientali, trova corrispondenza nell’incremento del ricorso al riciclaggio e nel riconoscimento dell’importanza della tematica ambientale. Tuttavia, il fattore Nimby e il riconoscimento di un livello di preoccupazione «medio» rappresentano degli ostacoli al processo di sviluppo nella tutela ambientale. Gli interessi economici e strategici degli Stati e l’attenzione che altre questioni più imminenti esercitano sul sistema politico, portano a un passaggio in secondo piano della questione.

Nonostante i propositi e le “buone intenzioni”, l’ambiente resta un discorso secondario nelle politiche internazionali, e questo è dimostrato anche dalla scarsa adesione dei PVS alle politiche ambientali e dall’assenza di preparazione psicologica ad eventuali rischi ambientali anche in zone frequentemente sottoposte a rischio.

 

BIBLIOGRAFIA

Reports NU: situazione ambientale

Ø          Exposure to risk and trust in information; implications for the credibility of risk comunication, «The Australasian Journal of Disaster and Trauma Studies», vol. 2000 (2)

Ø          IPCC, Climate change 2001. Synthesis report. Summary for Policymakers, Wembley, UK, september 2001

Ø          IPCC/TEAP Special Report, Safeguarding the ozone layer and the global climate system: issues related to hydrofluorocarbons and perfluorocarbons. Summary for Policymakers, downoladed from http://www.ipcc.ch/  Intergovernmental Panel on Climate Change

Ø          Conferenza per la riduzione dei disastri, downloded from http://www.unisdr.org/

Ø          United Nations, World Conference on Disaster Reduction, Report of the World Conference on Disaster Reduction, Kobe, Hyogo, Japan, January 2005

Ø          WCDR, Hyogo framework for action 2005-2015: building the resilience of nations and communities to disasters, Japan 2005

Ø          Perceptions of risk from natural hazards in two remote New Zealand communities, «The Australasian journal of disaster and trauma studies», vol. 2000 (2)

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Ø          Berta SM, Vitek JD, Improving perception of and response to natural hazards: the need for local education, «Journal of Geography», november-december 1982

Ø          Douglas M, Come percepiamo il pericolo: antropologia del rischio, Feltrinelli, Milano 1991

Ø          Douglas M, Wildavsky A, Risk and culture: an essay on the selection of technical and environmental dangers, University of California Press, California 1982

Ø          Baxter J, K. Greenlaw, Explaining perceptions of technological environmental hazard using comparative analysis, «The Canadian Geographer / Le Géographe canadien», 49, n° 1 (2005), pp. 61-80

Ø          Kates RW, Natural Hazard in human ecological perspective: hypotheses and models, Economic Geography, vol. 47, n° 3, jul 1971, pp. 438-451

Ø          Handmer J, Are flooding warnings futile? Risk communication in emergencies, «The Australasian Journal of disaster and trauma studies», vol. 2000 (2)

Ø          Lombardi M, Rischio ambientale e comunicazione, Franco Angeli, Milano 1997

Ø          Palm R, Urban earthquake hazards. The impacts of culture on perceived risk and response in the Usa and Japan, «Applied Geography», Elsevier Science, Great Britain 1998, vol. 18 (1), pp. 35-46

 


[1] M. Bagliani, E. Dansero, A. Penna, A. Spaziante, Rischi e criticità ambientali in Piemonte: quadro e prospettive per il PTR, doc. pdf.

[2] Marco Lombardi, Rischio ambientale e comunicazione, Franco Angeli, Milano 1997

[3] Scott Lash, Bronislaw Szerszynski, Brian Wynne (edited by), Risk, environment and modernity: towards a new ecology, Sage, London 1996

James K. Mitchell, Introduction. Hazards in changing cities, Applied Geography, vol. 18, n° 1, pp. 1-6, Elsevier Science, Great Britain 1998

[4] Robert W. Kates, Natural Hazard in human ecological perspective: hypotheses and models, Economic Geography, vol. 47, n° 3, jul 1971, pp. 438-451

[5] R. Palm, Urban earthquake hazards. The impacts of culture on perceived risk and response in the Usa and Japan, «Applied Geography», Elsevier Science, Great Britain 1998, vol. 18 (1), pp. 35-46

[6] IPCC, Climate change 2001. Synthesis report. Summary for Policymakers, Wembley, UK, september 2001

IPCC/TEAP Special Report, Safeguarding the ozone layer and the global climate system: issues related to hydrofluorocarbons and perfluorocarbons. Summary for Policymakers, downoladed from http://www.ipcc.ch/  Intergovernmental Panel on Climate Change

[7] Conferenza di Stoccolma (1972), Conferenza di Rio de Janeiro (1992) con emanazione dell’Agenda 21, Convenzione sul Clima di Tokyo (1997), Conferenza WCDR Kobe 2005

[8] Tra i dieci goals lanciati dalle Nu appare anche lo sviluppo sostenibile dell’ambiente: «Goal 7: Ensure Environmental Sustainability. Integrate the principles of sustainable development into country policies and programs and reverse the loss of environmental resources»,  www.unmillenniumproject.org

[9] caso Bhopal: nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, una fuoriuscita di gas tossico da una fabbrica americana (la Union Carbide) situata a Bhopal, in India, provocò la morte di almeno 30.000 persone.

[10] consorzio privato senza fini di lucro per i produttori e utilizzatori di imballaggi, che ha la finalità di perseguire obiettivi di recupero e riciclaggio materiali di imballaggio come previsto dalla legislazione europea, (fonte: www.conai.org).

[11] M. Lombardi, Rischio ambientale e comunicazione, Franco Angeli, Milano 1997

[12] cit.

[13] cit. M. Lombardi (1997)

[14] Perceptions of risk from natural hazards in two remote New Zealand communities, «The Australasian journal of disaster and trauma studies», vol. 2000 (2)

 

 

Sara Bonati

 

 

 

   

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