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Anno XIV num.4
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Le risorse idriche

di Stefano Iunca (Ott. 2011)

 

I recenti periodi di siccità, aggravati dall’inefficienza degli impianti di distribuzione idrica, hanno messo in evidenza sia le carenze del sistema dovute ad un’inadeguata gestione delle risorse idriche. Questo approccio si basa prevalentemente sulla convinzione della inesauribilità del bene acqua.

Di recente l’Unesco ha messo in evidenza la necessità di considerare la “dimensione sociale” nell’affrontare i problemi relativi alle risorse idriche. In particolare l’agenzia delle Nazioni Unite sottolinea non solo che «l’acqua è una parte integrante dell’ambiente e che la sua reperibilità è indispensabile per il funzionamento efficiente della biosfera», ma anche che «l’acqua è di importanza vitale per tutti i settori socio-economici» e che «lo sviluppo umano ed economico non è possibile senza una offerta d’acqua stabile e sicura», tanto da diventare sempre più spesso un motivo di conflitto tra paesi od all’interno della stessa regione (G. Romeo, L'acqua: scenari per una crisi, Soveria, 2005).

Nei documenti del Terzo Forum Mondiale sull’Acqua di Kyoto si legge che il numero dei morti e di chi comunque soffre per la scarsità dell’acqua, ha superato nel 2004 quello dei più recenti conflitti. Inoltre più di un bilione di persone non ha accesso ad acqua potabile pulita e circa 2,4 bilioni di persone non hanno accesso a cure mediche adeguate. Dietro la quantità di acqua disponibile per ciascun abitante si nascondono, infatti, grandi disparità. Mentre alcuni Paesi dispongono di grandi quantità d’acqua, altri si trovano alle prese con risorse idriche rinnovabili molto limitate. L’Asia, che conta il 61% della popolazione mondiale, possiede solo il 36% delle risorse idriche utilizzabili; l’Europa ospita il 12% della popolazione, ma dispone dell’8% delle risorse idriche; al contrario in America del Sud vive il 6% dell’umanità, ma vi si trovano il 26% delle risorse. Questi dati evidenziano come le condizioni di insufficienza stiano crescendo. Il problema dell’accesso all’acqua diventerà centrale nel XXI secolo, anche se dietro i dati globali si nascondono realtà diverse, come illustra la tabella seguente. Alcuni Paesi sono particolarmente provvisti d’acqua, come l’Alaska (1.5260.000 m3 per abitante), la Guayana (812.000), l’Islanda (609.000), la Repubblica democratica del Congo (275.000) o il Canada (94.000). Altri Paesi si trovano invece a fronteggiare una carenza idrica spesso drammatica, con dotazioni d’acqua pro capite molto esigue: Singapore (149 m3 per abitante), Malta (129), l’Arabia Saudita (118), la Libia (113), la Striscia di Gaza (53) e il Kuwait (10).

Al di là delle ineguaglianze distributive bisogna osservare che, se alcune società riescono convivere con la scarsità d’acqua, altre ne sono sempre più vittime. Esiste infatti un altro aspetto della questione dell’acqua: la scarsità non è quasi mai assoluta, ma molto più spesso relativa alla struttura di consumo e alla capacità di trasferimento e di adattamento, che variano da una società all’altra. Così la Giordania, che può beneficiare di 179 metri cubi d’acqua per abitante, deve confrontarsi con una situazione di penuria grave, mentre Singapore con i suoi 149 metri cubi per abitante, non è costretta a imporre razionamenti o a procedere ad arbitraggi.

La domanda globale di acqua cresce rapidamente a causa dell’espansione demografica della specie umana e del diffondersi del modello tecnologico-industriale, tipico della modernità occidentale. Nello steso tempo decresce la quantità di acqua potabile a disposizione delle popolazioni a causa delle turbolenze climatiche, dell’inquinamento sempre più diffuso e dei fenomeni di salinizzazione delle acque dolci.

In questo contesto emerge l’esigenza di considerare l’accesso all’acqua, per i suoi diversi usi, come un diritto ed un bene collettivo globale. Questo diritto, secondo la Banca Mondiale, va assicurato incentivando investimenti pubblici e privati nelle infrastrutture, ad esempio per l’immagazzinamento dell’acqua, ed una legislazione conforme a tale esigenza. L’esperienza ha dimostrato infatti come i programmi di cooperazione per lo sviluppo e la gestione delle risorse idriche abbiano giocato un ruolo rilevante nella integrazione regionale e nella stabilità delle regioni del Sud Est Asiatico (Tailandia e Laos) e dell’Asia del Sud (il bacino del fiume Indo), così come per le nazioni africane e per i paesi del bacino del Nilo.

Oggi le questioni più rilevanti sono due:

   a) da un lato, la garanzia dell’accesso all’acqua di milioni di persone che per ragioni politiche, economiche ed ecologiche non sono in grado di disporne;

   b) dall’altro, la protezione del diritto all’uso delle fonti idriche da parte di comunità politiche deboli, povere od oppresse, che si vedono limitare o negare il loro diritto all’acqua dai Paesi sviluppati o dalle corporation internazionali.

Queste due questioni portano i giuristi a concepire il diritto all’acqua non come una specie di libertà negativa (cioè l’uso indisturbato di un bene che la natura ha messo a disposizione di tutti gli uomini), ma come un “diritto sociale”. Luigi Ferrajoli stabilisce in proposito un’analogia tra il diritto all’acqua e il diritto alla vita (L'acqua come bene comune e il diritto all'acqua come diritto fondamentale, Relazione al Convegno internazionale sul diritto all'acqua, Gorizia, 8 febbraio 2003). Quest’ultimo è stato teorizzato alle origini della civiltà giuridica moderna come “diritto a non essere ucciso” (cioè come semplice immunità o “libertà negativa”), per includere poi anche il “diritto alla sussistenza”.

Se secondo il liberalismo classico la sopravvivenza era un fenomeno naturale, affidato al rapporto dell’uomo con la natura, al suo lavoro personale e alla sua libera iniziativa, oggi la sopravvivere non è più un fatto naturale, ma un fatto sociale, affidato alle possibilità di lavoro, di consumo e di sussistenza offerte dall’integrazione sociale. Il diritto all’acqua come diritto alla sopravvivenza è, quindi, un diritto alla solidarietà sociale (come il diritto alla salute, all’istruzione, alla casa) che «richiede l’intervento della collettività politica» (B. Al-Qaryouti, Le risorse idriche nel diritto internazionale con particolare riferimento alla Palestina, Firenze, 1999, p. 22).

Si tratta di un “nuovo” diritto sociale, creato dalla crescente scarsità di acqua, dalla disuguaglianza con la quale è distribuita o è accessibile, dalle contese provocate dalla competizione per il suo accaparramento. Tuttavia, gli Stati sono ancora restii ad inserire il diritto di accesso all’acqua tra i diritti sociali costituzionalmente garantiti e azionabili in giudizio. Per ora soltanto l’Uruguay, grazie alle pressioni del movimento Agua y Vida, nell’ottobre del 2004 ha inserito il diritto all’acqua nella sua Costituzione.

Oltre che come diritto sociale, il diritto all’acqua deve essere inteso anche come un “diritto collettivo”.

Da questo punto di vista non ha senso fissare degli standard quantitativi di consumo dell’acqua, validi per tutti i paesi e tutte le comunità. Ogni comunità, oltre il limite minimo coincidente con la stretta sopravvivenza, ha esigenze molto diverse. Come scrive Shiva (Le guerre dell’acqua, Milano, 2002), presso numerose comunità il diritto all’acqua è, come il diritto alla propria lingua e ai propri costumi, un diritto all’identità del gruppo e non è soltanto una condizione della sua sopravvivenza fisica. Se viene negato il diritto alle proprie risorse e il controllo sui propri mezzi di produzione viene lesa l’identità culturale di un gruppo.

Se invece il rapporto sociale con l’acqua è rispettato e protetto nelle sue forme consolidate nel tempo, il diritto all’acqua assume un’importante valenza simbolica che appartiene al gruppo come tale e non semplicemente ai singoli membri del gruppo. Si pensi al rapporto fra i corsi d’acqua e la qualità dell’ambiente e, più in generale, fra l’umidità del terreno e i tipi di colture, di abbigliamenti e di costumi alimentari, oppure ai miti identitari collegati ai grandi fiumi, dal Nilo al Gange, al Rio de la Plata, al Missisipi, al Tigri, all’Eufrate, al Giordano.

Di fronte alla situazione allarmante della maggior parte dei paesi in via di sviluppo, dove le risorse idriche sono minacciate da una gestione catastrofica e da un inquinamento dilagante, si potrebbe pensare che questi Stati non conoscano una tutela giuridica del bene naturale acqua e che le loro Costituzioni non conoscano norme a tutela dell’ambiente. In realtà, se si analizzano le costituzioni dei paesi in via di sviluppo di Asia, Africa ed America Latina ci si rende conto che la tutela dell’ambiente è riconosciuto in esse attraverso formule che non sono molto diverse da quelle delle costituzioni dei paesi sviluppati.

Schematizzando, si tratta:

   - o di formule imperniate sulla correlazione diritto-dovere, del tipo “tutti hanno il diritto di godere di un ambiente adeguato per lo sviluppo della persona e hanno il dovere di rispettarlo”;

   - o di formule che richiamano l’idea dello “sviluppo sostenibile” e la salvaguardia dei diritti delle “generazioni future” (ciò avviene nelle costituzioni più recenti, successive alla conferenza di Rio del 1992).

 

Stefano Iunca

 


 

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